Il veltro - Periodico fascista di Salsomaggiore Il veltro - Periodico fascista di Salsomaggiore - 5 agosto 1922 - Scorci salsesi -  La fine inonorata del socialismo italiano (1) - A Salso lo sciopero generale non è stato che un episodio di quella disfatta clamorosa che delineatasi primamente con un supino abban­dono di lavoro da parte delle mae­stranze, ha trovato il suo epilogo degnissimo nel manifesto che l’al­leanza omonima ha lanciato per ordinarne la ripresa. E però due momenti van distinti nella storia di queste memorabili giornate: l’abbandono del lavoro sotto l’altissima pressione delle squadre di vigilanza e la spontanea e generosa mobilitazione fascista.

La scopa

L’ordine di sciopero che doveva essere collaborazionista massimali­sta, comunista, anarchico, e perchè non « popolare » se (dalla riuscita di questo sciopero antifascista si sa­rebbe avvantaggiato il collabora­zionismo?) venne impartito da un comitato misto di quell’Alleanza del Lavoro che in provincia di Par­ma, nascendo, aveva mostrato en­tro il suo sconnesso organismo cre­pe irrimediabili e profonde.
Pochi illusi han risposto all’ap­pello col solito cieco fanatismo che ha sempre contraddistinto le mas­se stordite dalla organizzazione sovversiva.
Gli altri han seguito, supinamen­te, per incoscienza, per paura, per deficenza di spirito reattivo, men­tre le apposite squadre di vigilan­za, unica ragionevole istituzione socialista, mettevano in opera tutta la loro attività per vuotare i can­tieri di quegli operai che per amor del lavoro e dei propri figli tenta­vano di opporre all’ordine di scio­pero una resistenza passiva.
Allora abbiamo assistito a una specie di esodo doloroso.
Dov’erano le diserzioni in massa del 1919, i canti forsennati, i pro­positi di rivolta, le grida sediziose le minacce, le vendette del 1920?

L’esodo

Queste non erano maestranze che abbandonavano il lavoro per un’a­zione politica intesa a stroncare in vita il fascismo. Onesto era un pic­colo popolo che abbandonava il proprio borgo, sospinto in cattività da qualche manipolo d’invasori ululanti e briachi.
Tal’era l’impressione che suscita­vano le facce doloranti di quegli uomini rudi che per una milionesi­ma volta si vedevano strappati al­la fatica che dà gioia ad essi e pa­ne ai figli loro.
• Ne abbiamo abbastanza!
• Son commedie!
• I miei figli chi li sfama?
• Han saputo procurarci solo le bastonate dei fascisti!
• Sono i nostri capi che dovreb­bero bastonare!
Queste son le frasi che abbiamo colto mescolandoci ai gruppi di operai che prendevano la strada del ritorno con un passo grave, quasi affaticato dal peso enorme di una catena per tanti anni ribadita al loro piede.
Più tardi imbattendoci in un operaio di parte socialista, che rin­casava, ci siamo sentiti apostrofare con una frase che da sè sola può ri­velare tutto l’intimo sdegno di que­sta povera gente illusa per tanti an­ni dai barbagli di un sole che non ha mai potuto trovare il suo Orien­te.
Profittate del momento!....
Se dovete far la festa fatela tutta in una volta.

La mobilitazione fascista

Intanto la mobilitazione fascista si svolgeva con una perfezione di movimenti sbalorditiva.
Essa è stata fulminea, se si tien presente la considerevole estensio­ne del territorio del comune di Sal­so, disseminato di frazioni e di bor­gate minuscole su per le colline che fan corona alla ridente stazione balneare.
Se dalle sedi dei vari gruppi si fossero dovuti muovere reparti di truppa, già in assetto di marcia, cer­to non avrebbero impiegato un mi­nor spazio di tempo. Erano al lavoro gli uomini, dati alle opere quiete della fatica quoti­diana: parte curvi nei campi sotto la sferza del soffione, altri attorno alle macine dei mulini, altri nelle piccole officine, altri sulle fabbriche bianche di calcina nuova. Qui li ha sorpresi l'ordine di mobilitazione.
• Subito giù a Salso, in camicia.
Non chiarimenti non esitanze, non tergiversazioni dagli appellati.
• Pronti!
Il banditore, gira di cascina in cascina, di casa in casa; ordina e passa.
Gli operai hanno appena abban­donato i cantieri che i fascisti già giungono in città.
Scendono come possono: parte a piedi, parte in bicicletta, parte su calessi; indosso la camicia nera, in pugno il « manganello » la nappa del fez ondeggiante fuori di una ta­sca dei calzoni.
Li riconosciamo uno per uno ma che vale nominarli?
Son tutti presenti, nessuno si è sottratto al proprio dovere. Sap­piamo di gente che ha lasciato la cazzuola, il bischetto, la pialla, il martello, la zappa, l’ordigno del proprio mestiere, quello che gli procura sudore e pane tutti i gior­ni, per ogni giorno, ed è accorso al bando nella sicura coscienza della guerra che scendeva ad affrontare.
Meraviglioso! Tanto più meravi­glioso in quanto nel vederli qui adunati per l’appello noi riconoscia­mo fra essi pochi visi ingentiliti dal calamaio e dal libro. La maggior parte di essi son uomini rudi dalle mani incallite e dalla faccia adu­sta, uomini che stanno qui a dimo­strare come il fascismo non è rea­zione di classe dirigenti, ma ribel­lione di popolo alla tirannide eser­citata da un basso internazionali­smo per un trentennio, senza tre­gua, in danno della vita proletaria.

Bivacco

l capi squadra fanno rapido l’ap­pello. Ciascuno è al proprio posto. Le volontà dei gregari mirabilmen­te fuse a quelle dei capi, come nell’imminenza di una battaglia deci­siva.
Vengono fatte rompere le righe e collocate alcune sentinelle. Uomini di collegamento raccordano i cen­tri più importanti della vita citta­dina con la sede del comitato segre­to d’azione.
Qualche ciclista parte in ricogni­zione. Un’automobile fila a prende­re ordini dal comitato provinciale.
Non va particolare tattico che sia trascurato. Tutto è previsto, a tut­to è provveduto. Qualsiasi tentativo avversario inteso a turbare la con­tinuità dei servizi pubblici e della vita cittadina verrebbe nettamente spezzato.
Questa è gente che sa far la guer­ra perchè l’ha fatta in altri tempi contro un nemico null’affatto più temibile di questo che oggi siamo costretti a fronteggiare per la sa­lute d’Italia.
Le squadre son tutte consegnate. Ma qui non è alcun segno delle ru­morose riunioni fasciste. Non can­ti, non schiamazzi. Solo un brusio, più intenso meno intenso, sale dagli accantonamenti ove in crocchi si commentano le prime notizie che giungono dai paesi circonvicini.
La sera cala lentamente accre­scendo la suggestione di questo quadro di guerra. Un gruppo è pron­to per occupare l’officina elettrica, qualora mancasse la luce.
Ma come i negozi e i locali pub­blici che son rimasti aperti, come le ferrovie secondarie ove si sono ef­fettuati tutti i treni, come l’acqua, gli stabilimenti balneari, la nettez­za urbana, l’officina elettrica lavo­ra e a suo tempo la luce è fatta.
La notte ormai ha steso le sue col­tri brune. La vigilanza si fa più in­tensa, le opere più fervorose.
Giungono notizie di assalti e di incendi di cooperative e di circoli sovversivi. In qualche comune del­la Bassa i fascisti han dovuto usa­re le armi per infrangere qualche resistenza opposta dalla parte avversa, a mano armata.
Giunge finalmente una corvée con una refezione. Pane, salame e vino.
Scene gustose, si svolgono rapi­damente rompendo qua e là l’au­sterità dell’ambiente.
Un vocio ciarliero e spigliato a base idi frizzi e di racconti grassi annunzia un’ora più lieta delle al­tre.
I fascisti per terra a cavalcioni di un muretto o di una sedia, addos­sati a un albero o a un muro con­sumano il sobrio « rancio ».

Sveglia

Col sole mattiniero, gli accanto­namenti che han riposato sotto la vigilanza delle scolte si destano a qualche canto in sordina. I durissi­mi giacigli fra cui i più soffici erano tavoli o assi distesi, han giocato ai giovani la burla idi atteggiamenti assai virili.
Ora li vediamo passare a dorso nudo, l’un dopo l’altro sotto la can­na di una chiara fontanella.
La toilette è cosa spiccia, vigoro­sa, lieta, come ogni altra operazio­ne al campo.
II mattino di mercoledì la città presenta una insolita animazione. E’ la città delle grandi ricorrenze.
Da ogni finestra pende un grap­po nazionale, in ogni sguardo scin­tilla una intima gioia, su ogni bocca fioriscono parole di giubilo e di riconoscenza.
Come da qualche giorno si anda­va organizzando una serata patriot­tica a beneficio del Monumento ai Caduti, il giorno di mercoledì è oc­cupato nell’allestimento della festa.

Una serata tricolore

veltro indovinelloCosa strepitosa e memorabile, il Cinema Teatro Centrale si è gremi­to in un fìat. Dalla platea alla bal­conata l’animazione è intensa, ma quando arrivano le camicie nere in­quadrate al Comando dei propri Capi squadra, essa diventa entu­siasmo delirante.
L’orchestra intona un inno fasci­sta. Camicie nere e popolo confon­dono il proprio entusiasmo nelle acclamazioni di « Viva Mussolini », «Viva il Fascismo», «Viva l’Ita­lia ».
Cominciano le proiezioni.
La pellicola porta per titolo: Gio­vinezza, Giovinezza, primavera di Bellezza e riflette l’adunata lom­barda delle camicie nere.
Sono trentamila torsi eroici che han fatto del sacrifizio e dell’ardire una propria milizia insuperabile.
Al comparire di Benito Mussolini una voce formidabile urla: Per Be­nito Mussolini eja eja alalà.
I fascisti scattano in piedi tra­scinando la folla a un applauso fra­goroso, appassionato.
Le stesse acclamazioni si ripeto­no alla fine del film, quando il Grand’Uff. Dott. Garbarino scioglie con acconcie parole un inno all’e­sercito e ai suoi eroi caduti.
Poi il Cinema teatro sfolla, men­tre i fascisti inquadrati rientrano agli accantonamenti che presto piombano nel silenzio del sonno, il sonno profondo che coglie le mem­bra rotte da un’improba fatica.
Fuori il passo cadenzato delle sen­tinelle scande il ritmo di qùell’onesto riposo.

La seconda giornata

Siamo al secondo giorno di scio­pero. La vita cittadina fluisce per­fetta senza incidenti, senz’alcun se­gno di turbamento.
Gli scioperanti sono irreperibili, i capi si son messi a letto certa­mente.
Qualche bello spirito si ostina a raccontare che i maggiorenti sareb­bero ricorsi alle coperte imbottite per sedare un certo convulso di freddo che li avrebbe colti alla no­tizia della mobilitazione fascista.
Da Parma giunge al Comitato Se­greto l’ordine di tener pronti a partire trenta uomini.
Un fascista è inviato al Capoluo­go per prendere contatto col Comi­tato Centrale d’azione.
Le forze della provincia si concentrano verso Parma perchè qui­vi è l’ultimo baluardo della resisten­za sovversiva.
Tutta la notte è occupata in febbrili preparativi. Partono due squa­dre per riunirsi ad altre idi Borgo S. Donnino e raggiungere insieme il capoluogo di provincia.

La terza giornata

Lo sciopero è finito ma gli scio­peranti che si sono ripresentati al lavoro sono stati rimandati dagli industriali e dai datori i quali si riserbano di riaccettarli in servizio lunedì, se sarà del caso.
La mattinata non è caratterizzata da alcun avvenimento importan­te. Anzi tutto fa credere che in gior­nata avremo la smobilitazione del­le « Camicie nere ».
Ma verso sera un ordine chiama due squadre a Borgo San Donnino per l’occupazione di quel palazzo comunale.
Questo avvenimento pare decida in seno al Comitato Segreto d’Azione di Salso il trionfo della corrente che vuole occupare il locale muni­cipio.

L’occupazione del Palazzo di Città

veltro comunicatoSono circa le ore 20.
Viene rapidamente, fascisticamente, concretato un piccolo piano di operazioni.
Vi parteciperanno soltanto tren­ta uomini risoluti. Gli altri rimar­ranno agli accantonamenti.
Una parte degli occupanti sono reduci dall’assalto di Borgo S. Donnino ove l’operazione è riuscita me­ravigliosamente mercè due finte si­mulate con grande perizia di co­mandanti e di gregari.
Gli uomini designati per l’assal­to, ora, frazionati in vari gruppi, puntano per opposte e varie strade su Piazza V. Emanuele ove è sito il Municipio protetto da un cordone di Carabinieri.
La piazza è gremita del solito pubblico elegante, misto di cittadini e di bagnanti, che la sera affolla i caffè «Colombo, «Milanese» e « Grande Italia ».
L’orchestrina del « Grande Ita­lia » svolge il suo concerto serotino. I drappelli fascisti appaiono improvvisamente ai vari sbocchi della piazza, piombano di sorpresa e con una distrazione a destra irrompono nel municipio, guadagnano l’anti­camera del gabinetto del Sindaco, spalancano il balcone centrale e fra la commozione e l’esultanza della folla issano all’asta il tricolo­re e di fianco espongono il gagliar­detto della Sezione che oggi il va­lore dei capi e dei gregari riconsa­cra con un atto d’imperio nel nomi d’Italia e di tutti quelli che morirono col suo nome sulle labbra.
L’orchestrina del « Grande Ita­lia » intona l’immortale inno fiorito dalle trincee del Piave: «Giovi­nezza, Giovinezza ». La folla tutta, come obbedendo a un istinto irri­ducibile, con gli occhi incerti tra il sorriso e il pianto balza in piedi e applaude, e grida e chiama i morti e chiama i vivi, i presenti e gli as­senti, tutti i forti che perirono e tutti i forti che durano nella lotta gigantesca per il definitivo riscatto di questa Italia grande e immor­tale.
Chi non ha avuto la ventura di vivere quest’ora, avrà un rimpian­to, se ha cuore generoso.

L’intruso

veltro barzellettaIntanto, non si sa come, non si sa perchè dietro dalla luce purissima ch’effonde il gagliardetto tricolore spunta una faccia che a tutta pri­ma non tutti riconoscono.
• Chi è, chi è? — si domanda da ogni parte.
E’ il Segretario Comunale, è il Grand’Uff. Augusto Mario Rebucci, colui che nel 1920 arringò per le ele­zioni amministrative i sovversivi che si accingevano a conquistare il potere municipale.
Ebbene quegli stesso che per ven­ticinque anni ininterrotti ha cono­sciuto gl’intrighi della politica più subdola e proteiforme fatta di ser­vilismo e di opportunità; oggi ha la faccia tosta di accostarsi alla santi­tà del nostro gagliardetto per par­lare.
• Ma per chi parla, ma che vuol dire, che dirà?
La sorpresa ha sgomentati gli animi a tal segno che dalla profonda indignazione non ritrova alcuno l’energia di salire, di acciuffare quel signore, di trascinarlo giù, di ricac­ciarlo là donde è partito a tanta impresa.
Ecco, sentitelo, (i massoni si co­prono la faccia, i preti sghignazza­no), l’indefesso propugnatore delle statizzazioni, sente che il tempo brontola e il cielo si fa falogio. E con quel fregolismo che gli è particolare spezza una lancia per l’impresa fascista dicendola impresa di giovani che credono di operare nel nome d’Italia.
Il conflitto dei sentimenti interiori è troppo aspro perchè si possa tendere gli orecchi alle parole del coraggioso segretario comunale.
Ma quando egli tenta una difesa a favore della dimissionaria ammi­nistrazione socialista un fascista lo interrompe.
E’ la generosità e la purezza dì Nino Pozzi che si ribella:
• Non è vero !
Il Segretario balbetta qualche ret­tifica.
L’urlo come un tuono scoppia più formidabile:
• Non è vero!
L’altro conclude rapidamente e scompare.
Explicit magnae impudentiae fa­bula.

Le dimissioni ufficiali del Consiglio Municipale

I fascisti hanno montato tutta not­te la guardia al Palazzo di Città.
Nella mattinata di oggi il Sinda­co e il Consiglio municipale àn pre­sentato all’autorità prefettizia le lo­ro dimissioni.
In attesa che giunga il Commis­sario prefettizio il gagliardetto fa­scista seguita a garrire dal balcone del Municipio.

direttore veltro

Seconda parte

 12 agosto 1922 - Scorci salsesi - La fine inonorata del socialismo italiano (2)

 

Fonte:www.internetculturale.it 

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