5 febbraio 1946 – Gazzetta di Parma - Organo provinciale del C.L.N. - Comandante Trasibulo - NeveQuest’anno la neve e caduta più tardi. L'altr’anno, in gennaio, il giorno dell'Epifania, la neve era già caduta abbondante e scintillava al sole con barbagli cosi vivi da abbacinare la vista. E noi benedivamo quella neve e osservavamo lieti i fiocchi fitti e larghi. Eravamo armati come non mai; ancora giorni innanzi avevamo disteso sulla terra candida rossi segnali convenuti e raccolto con le dita irrigidite dal freddo e la commozione nell’animo il dono della Provvidenza. Le munizioni erano scarse o non proporzionate certo al numero ed al tipo delle armi in dotazione; ma già qualche paio di scarponi, infinitamente lunghi, e pur buoni, se imbottiti di paglia, era stato calzato e qualche pastrano inglese color tabacco faceva senza soste il suo turno di guardia, passando da una sentinella all'altra.

C'erano viveri di riserva per più giorni, c'erano buche per un eventuale occultamento, c'erano trincee sul monte S. Antonio e il monte Salso, c'era soprattutto la baldanza delle vittorie precedenti e la ferma volontà, di stroncare o, per lo meno, intralciare il rastrellamento imminente.
Questa neve, che ci inchiodava al suolo aveva nella nostra tattica semplice, ma positiva un valore determinante: ogni passo era un’orma, ogni crepa nella neve un segno compromettente, da giorni i cavalli e le bestie da soma frangevano la biada nelle stalle, le catene per gli autoveicoli erano poche e quelle poche cosi malandate da saltar via dalle ruote ad ogni curva un po' marcata: anche il nostro 3 RO, sopravvissuto a tanti sforzi e mitragliamenti aerei ci abbandonava: era stato visto da un lato della strada, in bilico tra la strada e la scarpata e forza di buoi non valeva a trarlo da quell'incomoda posizione.
Noi sapevamo che tra qualche giorno, muovendo alla zona ligure, piacentina e parmense, si andava restringendo quel cerchio destinato ad inferire, come nel giugno del 1944, un colpo grave al nostro movimento.
Per noi che dovevamo vivere e combattere in mezzo al nemico, vita e morte, vittoria e sconfitta, speranza e sfiducia erano tutt'uno con l’allargarsi e il restringersi di quel cerchio: dal centro di esso partivano i nostri reparti e s’irradiavano in ogni direzione e, quanto più lontano arrivavano e più lontano portavano piombo e rovina, tanto più ci sentivamo liberi e padroni in certo qual modo dello spazio e più capaci di respirare e di muoverci, agire, organizzarci; ma, quando poi quel cerchio si restringeva, perché il nemico vi disponeva intorno soldati ed armi in gran numero, era segno evidente di rastrellamento.
E rastrellarci voleva dire ridurci in uno spazio sempre più piccolo, toglierci l’aria, soffocarci, scompaginarci e, una volta scompaginati, ricercarci per ogni dove, per monti e valli, caverne e case, con un lavoro paziente e piacevole, come paziente e piacevole e il lavoro del contadino che col rastrello purifica la terra dei sassi e delle erbacce.
A questo tentativo di soffocarci noi potevamo opporre in sganciamento, cioè, in linea teorica, un tempestivo ed accorto, quanto difficile smembramento dei reparti in unità minori, che andassero a cercare vita ed aria altrove, sempre in mezzo al nemico, tra l’una e l’altra colonna rastrellante o in zone impervie e difficili, ma in piccoli gruppi poco individuabili, mentre prima eravamo un unico gruppo, forte e compatto.
Praticamente però sganciamento significava rovina di ogni ideale, perdita di uomini e di materiale, fame e sete e vagar continuo di fiere braccate e dolore pungente di abbandonar quel luoghi e quelle case dove eravamo vissuti e quella cara gente di montagna, che aveva diviso con noi pane, fuoco, giaciglio.
Sicché, pur consapevoli della gravità dell'ora a della nostra necessità di frazionarci e per cosi dire di scomparire, segretamente benedivamo in cuor nostro quella neve che c’inchiodava al suolo e ci toglieva ogni via d'uscita e allontanava nel tempo lo schianto di uno sganciamento rovinoso. Intanto con quella neve cosi alta, che arrivava oltre il ginocchio, uno sganciamento appariva impossibile o per lo meno si presentava solo come estremo rimedio; bisognava restare in posto, predisporre ogni cosa e seguire attentamente l'evolversi della situazione. E restammo e combattemmo.
Attaccammo il nemico ancora in fase di avvicinamento, lo mettemmo in fuga, resistemmo a Varano dei Melegari, a S. Vittore, alla Silva, a Cangelasio. E ci furono ragazzi che morirono da prodi e ragazzi che scherzarono con le granate dei mortai: si nascondevano ad una curva della strada, dietro una roccia o un muricciolo, poi saltavano fuori d'improvviso bene in vista; il puntatore nemico li vedeva e sparava ad essi subito di nuovo dietro la roccia e le granate scoppiavano a vuoto, con suono cupo, nella neve. Poi venne la notizia dell'occupazione di Bardi.
Avevamo ormai i nemici alle spalle, l'animo avvilito, ma bisognava resistere ancora un'ora o due o anche per proteggere il fianco dei piacentini, che combattevano ancora. Allora Marco, da buon sottotenente degli alpini, si mise a capo di un gruppo di uomini e partí per tamponare la falla e cadde ed ora il suo corpo riposa sotto la neve, nel cimitero di Careno.
Poi fu dato l'ordine di sganciamento, appena in tempo per uscire dal cerchio. Ricordo che scherzavamo in quella vecchia casa sopra Varano de' Melegari; le granate cadevano una dopo l'altra ma nessuna riusciva a colpire il segno; noi eravamo troppo addolorati per preoccuparci di qualche granata, ci abbracciavamo con le lagrime agli occhi, ci stringemmo la mano e pensammo che forse non ci saremmo rivisti mai più.
Al mattino incontrai ancora qualche partigiano in cerca di un rifugio, d'aria, di vita e maledii in cuor mio quella neve, che, come nulla fosse continuava a scintillare con barbagli così vivi da abbacinare la vista.

Trasibulo

"Fonte archiviogazzettadiparma.medialibrary.it / Biblioteca Civica del Comune di Parma in collaborazione con Editrice Gazzetta di Parma"

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